«I
miei occhi scontrano frontalmente
cimiteri pieni, falsi ideali;
disprezzo la mediocrità così violenta,
cammino capovolto, ammanettato,
scalcio con i piedi per liberarmi, dico:
va bene, ne ho abbastanza, che altro c'è da vedere?
E se si potessero vedere i miei sogni pensanti
probabilmente metterebbero
la mia testa in una ghigliottina»
Bob Dylan
(cit. da G.P. Motti in Conosci Renato Casarotto?, 1979)
Il K2 si
innalza come un ciclopico cristallo nel cuore della catena del Karakorum.
Piramide perfetta, sembra l'opera di un titanico artefice che, mentre
era impegnato nella sua meravigliosa fatica, mai conobbe attimi di
cedimento creativo: il gigante di roccia e ghiaccio è un capolavoro
senza cali di tensione, una scultura in cui la geniale forma complessiva
è sostenuta da una continua attenzione ai particolari. A nord, con il
lunghissimo spigolo, il monte dei monti par quasi aggredire il cielo,
mentre a sud si innalza dai ghiacciai come a voler dominare la terra. Ma
più sovrano che mai appare dal Colle Est del Lila Peak, con l'intero
Baltoro ai suoi piedi e il Broad Peak a fargli da scudiero: il K2,
identificato da un'arida sigla che sa di catalogo e che forse sarebbe
meglio dimenticare a favore dell'originario e ben più regale “Chogorì”,
si presenta tentatore, invitando l'uomo a provare, a cimentarsi lungo
quelle linee fantastiche che, spezzate o curve, affiancate da piani più
o meno inclinati, si dirigono verso l'unico vertice.
Lasciamo il
colle con un balzo leggero e in volo, senza timore ma silenziosi, ci
avviciniamo alla grande montagna. Improvvisamente anche tutto ciò che ci
circonda pare tacere: si ode soltanto, in lontananza, un rumore
misterioso, delicatamente ritmato. Da dove proviene? Un attimo di
esitazione, poi di ricerca, e lo sguardo sorpreso, reso stranamente
acuto dall'ebbrezza dell'altissima quota, intuisce una sagoma umana:
minuscola, pulsante, commovente nella sua estrema fragilità come
farfalla posata sul gigantesco cristallo. Procede verso l'alto seguendo
la via ideale, la “linea magica” che, pur mirabile, è soltanto figura di
un archetipo che trascende il mondo sensibile. La superba cresta, in
altre parole, è simbolo dell'eterno cammino dell'uomo, è immagine della
perfetta dialettica tra interiorità e universo esterno dove nulla è
superfluo. Perché lassù, in un'estatica solitudine che ricorda le lunghe
orazioni dei monaci medievali, ogni istante raggiunge pienezza di
significato e di necessità: il lungo sperone, il pilastro Sud-sud-ovest
del Chogorì, è simile alla scala del sogno di Giacobbe che «poggiava
sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Genesi 28,
12) e lungo di essa il viandante solitario «supera i bisogni, diventa
spirito, si rasserena. Poiché tutti i mondi tendono verso il sole e il
bisogno della tenebra è diventare luce» (Hermann Hesse, Orgelspiel).
Ad un tratto,
però, le tremende forze della natura si scatenano e costringono il
piccolo grande uomo a tornare sui propri passi: è il 16 luglio 1986 e la
rinuncia, questa volta, appare davvero definitiva. La discesa è furiosa,
velocissima, e il suo ultimo capitolo, lungo il tratto di ghiacciaio
immediatamente precedente la morena, si trasforma inaspettatamente nella
pagina estrema di una vita, dell'esistenza di uno dei più puri e meno
celebrati alpinisti di ogni epoca: il vicentino Renato Casarotto. Egli,
come altre volte e più di altre volte, aveva voluto inoltrarsi in quella
dimensione dove il corpo e lo spirito sprigionano il massimo
dell'energia e, dopo l'esperienza del 1979 nell'ambito della spedizione
guidata da Reinhold Messner, aveva deciso di affrontare quella via, la
Magic Line della seconda vetta della terra, contando
esclusivamente sulle proprie forze. «Non fu una sconfitta» scrisse
Alberto Peruffo nelle pagine della Rivista del Club alpino
italiano. Fu piuttosto «il riconoscimento della propria limitatezza
attraverso un confronto leale, senza artifici. Forse non era il momento
giusto, forse l'eccezionale tempra di Renato non era ancora pronta per
affrontare le tempeste di un ottomila, in solitaria, in stile alpino.
Tuttavia quel momento fu l'apoteosi dell'alpinismo classico,
dell'alpinismo inteso come avventura pulita, libera da ogni
condizionamento che non siano i limiti stessi dell'alpinista e
l'intrinseca natura di ciò che lo circonda, l'ambiente».
Così Casarotto
appare severissima unità di misura di tutto ciò che in montagna è stato
fatto prima e, soprattutto, dopo di lui e si rivela finalmente come un
vertice, nel complesso probabilmente ancora oggi insuperato, fatto di
tecnica, determinazione, rigore etico e creatività. L'alpinista
vicentino sembra incarnare un'ideale antico e tuttavia sempre attuale,
tanto che un giovane talento come Marco Anghileri, balzato agli onori
della cronaca dopo la prima ripetizione solitaria invernale della
Solleder-Lettenbauer sulla parete Nord-ovest del Civetta (14-18
gennaio 2000), tre anni prima dell'impresa che lo ha reso celebre aveva
compiuto una personalissima ricerca sulle tracce del nostro protagonista
ripercorrendo in cinque giorni, dal 10 al 14 marzo 1997, le sue vie
sulla Cima della Busazza (Casarotto, Giacomo Albiero e Giuseppe
Cogato dal 28 al 30 maggio 1976: fu la prima via delle Dolomiti ad
essere valutata di settimo grado, Anghileri e Riccardo Milani ne hanno
portato a termine la prima invernale) e sulla Quarta Pala di San Lucano
(Casarotto e Piero Radin, dal 23 al 25 maggio 1974: Marco l'ha
superata in prima solitaria e invernale).
«Conobbi
Renato quando ero appena un ragazzino – racconta il trentenne alpinista
lecchese - perché era un caro amico di papà (Aldo Anghileri,
arrampicatore di classe e tra i protagonisti dell'alpinismo italiano
durante gli anni Sessanta, ndr). Oggi, col senno di poi, rivedo
una persona molto concentrata che credeva fermamente in quello che
faceva. Non era timido, bensì davvero umile, e le sue vie riflettono la
sua personalità, il suo desiderio di scoperta. Molti mi vedono simile a
lui: un bel complimento, indubbiamente... Ma io non so cosa dire: forse,
se sono veramente tale, è soltanto perché, se un uomo desidera ricavare
dall'alpinismo determinate risposte, il percorso da seguire è uno
soltanto, assolutamente logico. E sulla Solleder in inverno, una
sorta di “elogio della lentezza”, credo di aver provato le medesime
sensazioni che egli visse sulla Nord del Huascarán o durante il grande
concatenamento sul Monte Bianco, un'impresa straordinaria che,
purtroppo, molti non hanno capito».
Parole
pesanti, quelle di Marco Anghileri, che non possiamo contraddire e che
ci conducono direttamente verso il primo dei fulcri attorno ai quali
ruota questa analisi: Renato Casarotto, vero e proprio “incompreso”, non
ha mai conquistato il posto di primo piano che, nel panorama alpinistico
internazionale, gli spetterebbe di diritto. Non che sia l'unico al quale
è toccata una sorte del genere – chi, tra i moderni guerrieri armati di
fantasmagoriche piccozze, ricorda ad esempio Gian Carlo Grassi o
Gianni Comino? – ma nel suo caso un simile trattamento appare
decisamente sconcertante e ricorda, pur ovviamente diverso nelle
motivazioni, la caduta nell'oblio della musica di Johann Sebastian Bach
dopo la morte del suo autore. Il paragone è soltanto apparentemente
azzardato e l'augurio è che, ad un certo punto, proprio come accadde ai
capolavori del grande compositore tedesco, anche alle imprese di
Casarotto venga riconosciuto il loro autentico valore di realizzazioni
fuori del tempo, di summa perfetta del sempre vivo e vitale
dialogo dell'uomo con la montagna. Basti pensare, in questo senso, alla
prima salita del Diedro Sud-ovest dello Spiz di Lagunaz, nel selvaggio
gruppo delle Pale di San Lucano, compiuta da Renato con l'amico Piero
Radin tra il 5 e l'11 giugno 1975: lo stesso Radin la ricorda come
un'esperienza irripetibile, di estremo impegno, e che in ultima analisi
si rivela quale stupefacente balzo in avanti nell'evoluzione
dell'alpinismo - in mirabile equilibrio tra “spirito del mito” e “forza
della ragione” - di portata difficilmente valutabile. Se l'istinto
creativo di Casarotto si espresse nel modo più compiuto con una serie di
salite in quel gruppo del quale già Emilio Comici intuì l'importanza, «è
certamente la salita del Gran Diedro dello Spiz di Lagunaz ad imporsi su
tutte» (Gian Piero Motti).
Nella società
attuale, caratterizzata dalla logica dell'effimero, del “tutto e subito”
e dal dominio incontrastato di vacue opinioni sostenute dall'urlare
continuo dei mass-media, in grado di ridurre la complessità del reale ad
una sconcertante e disorganica accozzaglia di dettami ispirati ad un
poco edificante “senso comune”, la visione della storia – che, in
verità, non è più nemmeno tale - appare come mai in passato
profondamente campanilistica. Quindi, limitando il discorso
all'alpinismo, può capitare che a tre brillanti francesi riesca in
inverno, per la precisione tra il 19 e il 28 febbraio 2003, la
cosiddetta Super integrale di Peutérey (Ratti-Vitali sulla
parete ovest dell'Aiguille Noire, Gervasutti-Boccalatte al Pic
Gugliermina, goulotte Frêneysie Pascale tra i Piloni centrale e
di destra del Frêney fino in cima al Monte Bianco). Può capitare poi che
il concatenamento venga definito «senza alcun dubbio l'itinerario più
difficile mai percorso per raggiungere il tetto d'Europa» e, ultimo
tassello, che si dimentichi quello che Renato Casarotto riuscì a portare
a termine tra il 1° e il 15 febbraio 1982 quando, in solitaria e in
completa autonomia, salì la Ratti-Vitali, scese lungo il versante
nord dell'Aiguille Noire, superò la Gervasutti-Boccalatte e poi,
raggiunta la base del Pilone Centrale, proseguì lungo la Bonington
fino ai pendii sommitali e alla vetta. Una linea perfetta e continua,
decisamente superiore alla scelta di Stéphane Benoist, Patrick Pessi e
Patrice Glairon Rappaz – i tre brillanti francesi – che dalla vetta
dell'Aiguille Noire hanno scelto di calarsi per la via appena percorsa
per poi raggiungere l'attacco della Gervasutti lungo il
ghiacciaio del Frêney.
A gettare
un'ombra su Casarotto contribuì anche Reinhold Messner. Il fuoriclasse
altoatesino, in seguito alla già menzionata spedizione al K2 del 1979,
non ebbe certamente parole di riguardo nei confronti dell'alpinista
veneto che, già allora, avrebbe voluto tentare seriamente la Magic
Line. Si innescò quindi una polemica nei dettagli della quale
preferiamo non entrare, limitandoci a ricordare che nel suo volume
Sopravvissuto (1987), Reinhold scrisse che Casarotto era il più
debole fra tutti i partecipanti della spedizione (oltre a loro c'erano
Alessandro Gogna, Friedl Mutschlechner, Michl Dacher e Robert Schauer)
spiegando, poco oltre, di averlo invitato perché lo riteneva «uno dei
migliori rappresentanti dell'alpinismo classico mitteleuropeo. Durante
l'impresa tuttavia si dimostrò troppo lento per poter essere d'aiuto
alla squadra alle quote più alte: all'epoca rinunciai al progetto di
tentare il pilastro Sud anche perché non avrei potuto contare sul suo
appoggio». Messner aggiunge infine che «nel 1986 Casarotto tornò al
pilastro sud del K2. Non so dire se intendesse “saldare un conto” o se
per lui, come la prima volta, la Magic Line fosse molto
importante. So soltanto che era destinato a fallire. Renato Casarotto,
per cui provavo del rispetto, precipitò e morì in discesa in un
crepaccio».
Reinhold parlò di Renato anche sulle pagine della Rivista del
Club alpino italiano (maggio-giugno 1987), affermando che «tecnicamente
aveva dei grossi limiti» e provocando l'immediata e perentoria reazione
di Andrea Gobetti e, soprattutto, di Roberto Mantovani. L'attuale
direttore della Rivista della montagna non usò mezzi termini e
rispose al primo salitore dei quattordici ottomila ricordandogli «la
strabiliante serie di prime ascensioni, prime invernali e prime
solitarie» portate a termine da Casarotto, sottolineando anche come
«quei pochi alpinisti che si sono trovati a dover fare i conti con le
vie di Renato abbiano espresso tutti dei giudizi più che lusinghieri,
confermando in pieno la valutazione tecnica espressa nelle prime
relazioni».
Le parole di
Mantovani trovano conferma in quelle di Marco Anghileri e di due
alpinisti tanto schivi quanto mossi da una passione disinteressata:
Giacomo Albiero e Piero Radin, storici compagni di cordata del nostro
eroe silenzioso.
«Credo che la Casarotto alla Busazza – spiega Anghileri – sia il
classico esempio di come la storia che si trova dietro una via
rappresenti uno degli elementi che più la rendano affascinante.
Ripetendola in invernale non ho potuto non pensare al suo primo salitore
e ai mezzi che utilizzò: le emozioni più grandi, durante la scalata,
arrivarono sicuramente dalla figura di Renato. Io e Riccardo Milani
(forte alpinista lecchese compagno di Mauro “Bubu” Bole in occasione di
un recente tentativo al Cerro Torre, ndr) rimanevamo stupiti ogni
volta che ci trovavamo ad affrontare passi per niente facili, ricordando
che colui che ci aveva preceduti li aveva superati con ai piedi dei
pesanti scarponi».
Abbiamo già
ricordato che con Casarotto, in occasione della salita alla Cima della
Busazza, c'era il forte ed esperto Albiero, classe 1925 e quindi oggi
ormai prossimo alla soglia degli ottant'anni. La sua testimonianza si
intreccia con quella del più giovane Radin, nato nel 1943, e presenta
uno spaccato interessante della personalità del fuoriclasse veneto: uno
spunto per procedere oltre “la scorza delle rocce” e, seguendo
l'intuizione di Gian Piero Motti e alcune affermazioni di Ivan Guerini,
considerare la figura di Casarotto oltre i numeri dei suoi capolavori
alpinistici. In altre parole: fornire un'interpretazione culturalmente
più ampia e profonda delle scalate del nostro personaggio per arrivare a
liberare l'alpinismo dal vicolo cieco nel quale spesso si è cacciato e
renderlo, ancora nello spirito di Motti, “balcone privilegiato per
osservare la realtà e l'evolversi delle cose”.
«Conobbi
Renato nel 1973 frequentando la sezione del CAI di Vicenza – racconta
Giacomo Albiero -. Non fu nulla di strano: cominciammo a parlare tra noi
e ci lasciammo con un appuntamento per la domenica successiva, quando
arrampicammo insieme per la prima volta. Da allora ne abbiamo combinate
di tutti i colori: importanti ripetizioni, vie nuove...». Radin, invece,
conobbe il nostro protagonista in palestra: «Ci incontrammo e fu subito
intesa – ricorda Piero -: non passò molto tempo che eravamo già insieme,
in inverno, sullo spigolo Strobel alla Rocchetta Alta di
Bosconero, nelle Dolomiti zoldane». La salita richiese tre giorni, era
il marzo 1974, e Motti la definì «un netto salto qualitativo
nell'evoluzione di Casarotto, prefigurando l'impronta che egli darà al
suo alpinismo invernale e solitario».
Ammirazione
senza compromessi rivelano ancora Albiero e Radin: se il primo parla di
un «personaggio stupendo, sia come uomo che come alpinista, che in
parete sembrava non incontrare mai vere difficoltà», il secondo ricorda
come in realtà non fosse come a molti era dato di vederlo: «Non era un
“orso” - spiega -. Amava anzi parlare, confidarsi con gli amici, anche
se era meglio non contraddirlo..., ed aveva un forte sentimento
religioso. E' difficile fornire valutazioni precise in questo senso,
tuttavia posso assicurare che in parete, anche nei momenti più critici,
a differenza della maggior parte degli alpinisti mai pronunciò
un'imprecazione o soltanto parole volgari. Senza dimenticare il suo
profondo senso della famiglia e ciò che provava per Goretta: sua moglie
fu per lui un aiuto determinante, un'incredibile sostegno psicologico in
ogni situazione». Ancora Mantovani, grande amico di Casarotto che con
Roberto, dopo il ritorno dal K2, avrebbe voluto ripercorrere tutte le
grandi classiche delle Dolomiti per compilarne una fantastica storia a
quattro mani, a proposito del “modo di porsi” di Renato precisa che «in
pubblico appariva schivo, quasi dimesso; con gli amici invece era
vivace, curioso, dalla battuta pronta». Tanto che certe sere, spinti da
quella voglia di capire che a trent'anni suonati rende ancora simili a
dei ragazzini, i due “compari” tiravano le ore piccole soltanto per
parlare: «Passavamo il tempo a svitare e riavvitare il mondo – ricorda
Mantovani -, per trovare una soluzione ai problemi di cui si discuteva».
Dal punto di
vista più strettamente tecnico era un primo di cordata per vocazione,
sulle tracce di Cassin e Bonatti che non sopportavano l'arrampicare con
la corda tesa davanti. «Ho sempre avuto il pallino di scalare da primo,
anche quando arrampicavo con gente molto brava – confessò Renato in un
quaderno -. Forse mi sbagliavo, ma non mi sentivo mai abbastanza sicuro
appeso alla corda di un altro. Probabilmente è per questo – aggiunse –
che non ho avvertito il gran salto dell'arrampicata solitaria». «Non
amava arrampicare da secondo – conferma il saggio Albiero – e in testa
alla cordata era in grado di piantare chiodi in posizioni apparentemente
impossibili: io, quando dovevo schiodare, ero spesso costretto ad
“appendermi”! Stilisticamente ineccepibile, aveva uno stile “aperto”,
con grandi spaccate... Era un puro, non disposto ad alcun compromesso,
avversario senza mezzi termini dei chiodi a espansione: mai ne piantò e
mai ne portò con sé durante una salita. Renato ha arrampicato soltanto
per intimo piacere, per ottenere il meglio di sé: era umile, non amava
farsi pubblicità e mai, neppure dopo straordinarie imprese come quella
che ritengo il suo capolavoro, la solitaria invernale del Diedro
Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza, con la parete ricoperta
da un'immensa crosta di ghiaccio, si montò la testa». Le parole di Piero
Radin si aggiungono, ricalcandole, a quelle di Albiero: «Con lui –
ricorda l'amico - arrampicai quasi sempre da secondo, soltanto negli
ultimi anni mi capitò di fare qualche tiro davanti... Era
determinatissimo, Renato, con una grande forza mentale, e quando si
lanciava in un'impresa si poteva star certi che mai avrebbe mollato: una
volta fissato un obiettivo faceva di tutto per raggiungerlo. Così nel
1979, sul K2, subì un colpo non indifferente: quella volta tornò a casa
deluso, profondamente demoralizzato per non aver potuto giocare tutte le
sue carte. Sette anni dopo decise di ritornare laggiù: lui, l'amico del
grandioso Trittico del Frêney e del McKinley in solitaria, era
fatto così. La sua scomparsa mi parve inverosimile: rimasi sbalordito,
non volevo crederci anche perché, per quanto riguarda la sicurezza,
Renato non trascurò mai alcun dettaglio. Tanto che in solitaria
arrampicò sempre autoassicurato, sfruttando il famoso sistema dei
cordini con i Prusik».
Già, le
solitarie: non è possibile parlare di Renato Casarotto senza entrare nei
dettagli dei suoi personalissimi colloqui con la montagna, capolavori
che, al modo di stupendi autoritratti, ci permettono di ripercorrere la
sua evoluzione creativa, tecnica e, soprattutto, umana.
Era il 1968,
quando il nostro protagonista aveva già vent'anni, che la montagna lo
stregò irrimediabilmente. I primi passi li mosse sulle montagne di casa,
le Piccole Dolomiti, e manifestò fin dagli esordi una spiccata
predilezione per le avventure senza compagni e per la ricerca di nuovi
itinerari. Nel 1971, tutto solo, salì uno storico itinerario di Raffaele
Carlesso nel gruppo del Pasubio ma è tra il 19 e il 23 dicembre 1974 che
confezionò il suo primo gioiello: l'allucinante prima solitaria
invernale della Simon-Rossi sulla parete Nord del Pelmo. Soltanto
due mesi più tardi, dal 22 al 27 febbraio 1975, ebbe modo di ripetersi
lungo la Andrich-Faè sulla parete Nord-ovest del Civetta e nel
1977, dal 5 al 21 giugno (diciassette giorni di permanenza ininterrotta
in parete!), superò l'immensa parete Nord del Nevado Huascarán, la più
alta cima delle Ande peruviane. Fu un'impresa titanica, tanto per
concezione quanto per le difficoltà superate, e oggi (aprile 2003),
l'itinerario è ancora in attesa di una ripetizione. Alice Pedretti,
moglie del tanto formidabile quanto schivo alpinista camuno Battista
Bonali, disse un giorno che la Nord del Huascarán è come «uno sparviero
minaccioso che si difende dall'attacco» e che un giorno, era il 1993,
attirò a sé proprio Battista. Egli avrebbe voluto scalarla per i bambini
dell'“Operazione Mato Grosso” di padre Ugo De Censi, missionario da anni
attivo in Perù, e, informato proprio da Goretta Casarotto dei grandi
pericoli oggettivi che essa presentava, contava di ripeterla nel più
breve tempo possibile. Ma quando erano ormai a poche decine di metri
dalla vetta, vicini al coronamento del loro sogno, Battista e
Giandomenico Ducoli furono probabilmente travolti da una scarica di
sassi. Per loro non ci fu nulla da fare: vennero ritrovati milleseicento
metri più in basso, alla base della nera muraglia.
Nel 1979 fu la
volta del superbo ed evidente pilastro Nord-est del Fitz Roy, in
Patagonia: Renato l'aveva già tentato con la guida alpina erbese
Graziano Bianchi e aveva in seguito deciso di provare da solo. Il
risultato fu una superba linea di oltre mille metri con difficoltà di
VI+ e A2. Ma non indugiamo nelle sterili sigle: nel 1982 fu la volta del
già ricordato Trittico del Frêney e poi, dal 30 dicembre al 9
gennaio 1983, della solitaria invernale del capolavoro di Enzo Cozzolino
sul Piccolo Mangart di Coritenza. Per rendere l'idea delle condizioni
della parete in quello scorcio d'inverno basti ricordare che un giorno,
dando il massimo di sé, Casarotto riuscì a progredire soltanto di venti
metri.
Dalle Ande
alle Alpi e poi al Karakorum, sullo sperone settentrionale del Broad
Peak Nord dove, pochi mesi dopo l'avventura del Diedro Cozzolino,
una via nuova di duemilacinquecento metri di dislivello e di alta
difficoltà su ogni tipo di terreno divenne una stupenda realtà. In
quell'occasione, come spiega Roberto Mantovani, «durante la discesa il
buio bloccò Renato a 7500 metri, costringendolo a trascorrere la notte
in piedi, su un masso piantato in mezzo al pendio ghiacciato, senza
tendina, senza sacco a pelo e senza zaino». In dodici giorni,
nell'aprile 1984, il nostro eroe superò ancora la cresta Sud-est del
McKinley (The ridge of no return ossia “La cresta del non
ritorno”, come l'avevano battezzata Glenn Randall e Peter Metcalf dopo
un tentativo). Casarotto riuscì a farsi strada in un labirinto di
cornici infernali, giganti pericolanti pronti a crollare ad ogni
istante, e a scovare la via in un surreale mondo di ghiaccio dove egli,
per la prima volta, si trovò a lottare con elementi nuovi – definiamoli
pure “allucinazioni” e “paura” - dei quali aveva forse intuito
l'esistenza senza tuttavia, prima di quei giorni, sperimentarla in modo
pieno.
L'ultima
grande impresa solitaria invernale del nostro protagonista risale al
1985. Erano stati necessari ben sei tentativi ma alla fine – e tornano
alla mente le parole di Piero Radin -, Renato ebbe ragione di se stesso
e di quella parete che, come scrisse Gian Piero Motti nella sua
Storia dell'alpinismo, appare «rossa come il sangue, verticale,
compatta, e si alza prepotente sopra un caos di blocchi di ghiaccio»: è
la parete di Giusto Gervasutti, la feroce e selvaggia Est delle Grandes
Jorasses. Il “Fortissimo” l'aveva superata nel 1942 al termine di
un'autentica epopea che lo aveva visto tentare e ritentare e Casarotto,
perso in quel mare di placche di granito incrostate di ghiaccio, si
ritrova forse senza rendersene conto sulle tracce del grande friulano,
con nella testa i pensieri di quei pochi che avevano voluto avere a che
fare con quella via. Così, ad un tratto, ecco risuonare nell'aria, quasi
fosse il vento a centocinquanta chilometri l'ora ad averle portate fin
lassù, le parole di Gervasutti, l'allucinato ed incandescente canto
dell'eroe che si eleva sopra ogni forza della ragione: «Ero partito da
solo, come spesso mi accadde in quell'anno – scrisse il “Fortissimo” -.
Sapevo che l'alpinismo solitario in genere è condannato e considerato
quasi come una mania suicida». Ma «nelle vibranti e libere corse sulle
rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento,
nella dolcezza un po' stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la
serenità e la tranquillità». Perché «l'ebbrezza di quell'ora passata
lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere
sufficiente a giustificare qualunque follia... Ed al giovane compagno
che inizia i primi duri cimenti, ricorderò il motto dell'amico caduto su
una grande montagna: “Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio”».
«Renato –
spiega Roberto Mantovani – considerava la scalata come uno straordinario
mezzo introspettivo, uno strumento per arrivare al nocciolo della vita e
trovare una risposta alle grandi domande», ritenendo che il procedere in
solitaria lungo una via nuova, oppure in libera dove altri erano
riusciti a forzare i passaggi soltanto in artificiale, fosse il massimo.
Non amava rischiare e giocare d'azzardo con la vita, ma non era attratto
dalle vie facili: egli desiderava compiere un viaggio nell'ignoto,
liberare se stesso nell'azione e quindi conoscersi nel modo più
profondo. I limiti, affermò una volta, «esistono soltanto perché li
poniamo dentro di noi».
Casarotto
cercava la libertà, era impegnato lungo un cammino difficile e
pericoloso. Egli era cosciente dei rischi della vita incolore e colma di
compromessi: sapeva benissimo che, in fin dei conti, erano ben superiori
rispetto a quelli che si incontrano in parete. Così volle diventare
l'alfiere della vita, esporsi per raggiungerne almeno per qualche
istante l'essenza. L'alpinismo solitario è quindi soltanto una chiave,
un mezzo per raggiungere ben altri risultati che non la conquista di
vette e pareti: nell'esasperante lentezza della progressione si entra in
una dimensione particolare dove l'istante sfuma in un oceano temporale
indefinito, dove non sono permesse «interruzioni, intromissioni,
ingerenze dal mondo della flaccidità, dell'opulente comodità» (Alberto
Peruffo).
Il fuoco
interiore ha bisogno di tempo per svilupparsi e Renato ne ascoltò sempre
le esigenze, intraprendendo una ricerca estrema che lo portò a
comprendere ciò di cui parlò Anna Lauwaert, compagna in montagna e nella
vita di un altro leggendario solitario, il belga Claudio Barbier, nel
volume La via del drago: «La montagna insegna a prendere
coscienza della propria solitudine, a valutare le proprie forze, a
gestire paure e debolezze, a camminare malgrado tutto, perché non c'è
altra soluzione. Mosè salì sulla montagna e Dio gli venne incontro; solo
nel silenzio della solitudine Dio parla. Solo attraverso la
sperimentazione e l'accettazione della solitudine l'uomo trascende se
stesso, l'essere trascende il tempo... Allora il silenzio parla, allora
si raggiunge il principio; e “In principio era il Verbo, e il Verbo era
presso Dio”».
L'alpinismo
solitario - è il secondo fulcro della nostra trattazione - si configura
come momento di assoluta ribellione, di totale presa di coscienza della
propria grandiosa dignità: è come un'opera d'arte che si eleva al di
sopra degli umani accadimenti, un guizzo di genio che, svincolandosi dal
marasma sterile della banalità, sgretola tutto ciò che ogni giorno
sempre più intorpidisce la lucentezza dei pensieri, permettendo di
riconquistare una purezza perduta. Ma per procedere lungo questa strada,
difficile e faticosa, occorre, come scrisse un giorno proprio Battista
Bonali, «sporcarsi le mani», ossia andare controcorrente perché, sono
sempre parole del primo salitore del Great Couloir della parete
Nord dell'Everest, «non si arriva in cima a una montagna se non si
comincia a camminare in salita».
Le solitarie
di Renato ci presentano immagini diverse della sua personalità o,
meglio, una medesima immagine secondo prospettive e in momenti
differenti: sono pagine di un diario che egli ha dedicato a sé, gli
apici di una creatività sempre altissima che richiamano le ultime opere
di Rembrandt. Nelle sue ultime tele, quegli orgogliosi autoritratti che
raggiungono l'universale, il grande pittore olandese chiude la sua
parabola umana e si raffigura inscindibilmente legato alla sua arte,
ribadendo una volta per tutte la propria individualità. Egli si spense
solo e in silenzio, mentre lo stile della pittura e della vita del suo
paese stavano rapidamente e irrimediabilmente scivolando verso un
conformismo anonimo che non ne voleva sapere di estreme ricerche.
Allo stesso
modo il cuore dell'attività di Casarotto cadde in un momento cruciale
della storia dell'alpinismo, quando il tentativo di liberare
l'arrampicata dalle ammuffite pastoie di un tempo stava ormai fallendo.
Egli si ritrovò come rinchiuso in un'antica cattedrale colma di suoni
d'organo mentre, fuori, le nuove generazioni erano già vittime della
fretta, del “mito dell'uomo-muscolo alla Bronzo di Riace” (Gian Piero
Motti, Arrampicare a Caprie) e non più in grado di apprezzare
quell'arte complicata che richiede pazienza. Forse, ancora oggi, gli
eredi di quei giovani sentono l'ammonimento tanto esigente, ma ciò che
un tempo era sacro e bello, a loro è ormai incomprensibile: vittime dei
tempi moderni e “incapaci di pregare”, lasciano vuoto il tempio, che si
innalza preistorico sopra le affaccendate vie. E il maestro? Egli resta
solo, non curandosi delle contraddizioni che scorrono febbricitanti
lungo binari tempestosi, e in un ultimo istante, mentre non comprende
più se il tempio teso verso il cielo sia davvero tale o sia piuttosto
una cuspide di granito forgiata dalla natura, si piega su se stesso ed
esprime l'insanabile dicotomia con la quale, purtroppo, occorre imparare
a convivere.
«Raccontare,
parlare, è molto difficile – scrisse l'indimenticabile Renato nel suo
Oltre i venti del nord, al termine del racconto della
solitaria della Ridge of no return -. E' sempre duro arrivare
così vicino all'essenza della vita e poi, dopo, ritornare indietro e
sentirsi imprigionati nelle strettoie del linguaggio, completamente
inadeguato a tradurre in simboli i concetti e la totalità
dell'esperienza vissuta. Un'esperienza lunga e sofferta che mi ha
permesso di capire una verità fondamentale: alla base di tutto, di ogni
azione che l'uomo compie, deve esserci sempre l'Amore». E anche Andrea
Gobetti, parlando proprio dell'ultimo “puro folle” dell'alpinismo e
della sua ultima parete, disse un giorno che «sotto sotto c'è qualcosa
che ha a che fare con l'amore, quella porta oltre la quale c'è tutta
la gioia e tutto il dolore del mondo, e chi non vuol sapere
quanto è, non l'aprirà mai e, pazienza, vivrà senza saperlo».
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© aprile 2003 intraisass