Ritratti 04

 Appunti artistici di storia dell'alpinismo  

 

 

Ritratto di
 Piera Biliato

 

 Testo di Carlo Caccia

 Renato Casarotto

   Ultimo “puro folle” in cerca di amore 

«I miei occhi scontrano frontalmente
cimiteri pieni, falsi ideali;
disprezzo la mediocrità così violenta,
cammino capovolto, ammanettato,
scalcio con i piedi per liberarmi, dico:
va bene, ne ho abbastanza, che altro c'è da vedere?
E se si potessero vedere i miei sogni pensanti
probabilmente metterebbero
la mia testa in una ghigliottina»


Bob Dylan
(cit. da G.P. Motti in Conosci Renato Casarotto?, 1979)
 

Il K2 si innalza come un ciclopico cristallo nel cuore della catena del Karakorum. Piramide perfetta, sembra l'opera di un titanico artefice che, mentre era impegnato nella sua meravigliosa fatica, mai conobbe attimi di cedimento creativo: il gigante di roccia e ghiaccio è un capolavoro senza cali di tensione, una scultura in cui la geniale forma complessiva è sostenuta da una continua attenzione ai particolari. A nord, con il lunghissimo spigolo, il monte dei monti par quasi aggredire il cielo, mentre a sud si innalza dai ghiacciai come a voler dominare la terra. Ma più sovrano che mai appare dal Colle Est del Lila Peak, con l'intero Baltoro ai suoi piedi e il Broad Peak a fargli da scudiero: il K2, identificato da un'arida sigla che sa di catalogo e che forse sarebbe meglio dimenticare a favore dell'originario e ben più regale “Chogorì”, si presenta tentatore, invitando l'uomo a provare, a cimentarsi lungo quelle linee fantastiche che, spezzate o curve, affiancate da piani più o meno inclinati, si dirigono verso l'unico vertice.

Lasciamo il colle con un balzo leggero e in volo, senza timore ma silenziosi, ci avviciniamo alla grande montagna. Improvvisamente anche tutto ciò che ci circonda pare tacere: si ode soltanto, in lontananza, un rumore misterioso, delicatamente ritmato. Da dove proviene? Un attimo di esitazione, poi di ricerca, e lo sguardo sorpreso, reso stranamente acuto dall'ebbrezza dell'altissima quota, intuisce una sagoma umana: minuscola, pulsante, commovente nella sua estrema fragilità come farfalla posata sul gigantesco cristallo. Procede verso l'alto seguendo la via ideale, la “linea magica” che, pur mirabile, è soltanto figura di un archetipo che trascende il mondo sensibile. La superba cresta, in altre parole, è simbolo dell'eterno cammino dell'uomo, è immagine della perfetta dialettica tra interiorità e universo esterno dove nulla è superfluo. Perché lassù, in un'estatica solitudine che ricorda le lunghe orazioni dei monaci medievali, ogni istante raggiunge pienezza di significato e di necessità: il lungo sperone, il pilastro Sud-sud-ovest del Chogorì, è simile alla scala del sogno di Giacobbe che «poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Genesi 28, 12) e lungo di essa il viandante solitario «supera i bisogni, diventa spirito, si rasserena. Poiché tutti i mondi tendono verso il sole e il bisogno della tenebra è diventare luce» (Hermann Hesse, Orgelspiel).

Ad un tratto, però, le tremende forze della natura si scatenano e costringono il piccolo grande uomo a tornare sui propri passi: è il 16 luglio 1986 e la rinuncia, questa volta, appare davvero definitiva. La discesa è furiosa, velocissima, e il suo ultimo capitolo, lungo il tratto di ghiacciaio immediatamente precedente la morena, si trasforma inaspettatamente nella pagina estrema di una vita, dell'esistenza di uno dei più puri e meno celebrati alpinisti di ogni epoca: il vicentino Renato Casarotto. Egli, come altre volte e più di altre volte, aveva voluto inoltrarsi in quella dimensione dove il corpo e lo spirito sprigionano il massimo dell'energia e, dopo l'esperienza del 1979 nell'ambito della spedizione guidata da Reinhold Messner, aveva deciso di affrontare quella via, la Magic Line della seconda vetta della terra, contando esclusivamente sulle proprie forze. «Non fu una sconfitta» scrisse Alberto Peruffo nelle pagine della Rivista del Club alpino italiano. Fu piuttosto «il riconoscimento della propria limitatezza attraverso un confronto leale, senza artifici. Forse non era il momento giusto, forse l'eccezionale tempra di Renato non era ancora pronta per affrontare le tempeste di un ottomila, in solitaria, in stile alpino. Tuttavia quel momento fu l'apoteosi dell'alpinismo classico, dell'alpinismo inteso come avventura pulita, libera da ogni condizionamento che non siano i limiti stessi dell'alpinista e l'intrinseca natura di ciò che lo circonda, l'ambiente».

Così Casarotto appare severissima unità di misura di tutto ciò che in montagna è stato fatto prima e, soprattutto, dopo di lui e si rivela finalmente come un vertice, nel complesso probabilmente ancora oggi insuperato, fatto di tecnica, determinazione, rigore etico e creatività. L'alpinista vicentino sembra incarnare un'ideale antico e tuttavia sempre attuale, tanto che un giovane talento come Marco Anghileri, balzato agli onori della cronaca dopo la prima ripetizione solitaria invernale della Solleder-Lettenbauer sulla parete Nord-ovest del Civetta (14-18 gennaio 2000), tre anni prima dell'impresa che lo ha reso celebre aveva compiuto una personalissima ricerca sulle tracce del nostro protagonista ripercorrendo in cinque giorni, dal 10 al 14 marzo 1997, le sue vie sulla Cima della Busazza (Casarotto, Giacomo Albiero e Giuseppe Cogato dal 28 al 30 maggio 1976: fu la prima via delle Dolomiti ad essere valutata di settimo grado, Anghileri e Riccardo Milani ne hanno portato a termine la prima invernale) e sulla Quarta Pala di San Lucano (Casarotto e Piero Radin, dal 23 al 25 maggio 1974: Marco l'ha superata in prima solitaria e invernale).

«Conobbi Renato quando ero appena un ragazzino – racconta il trentenne alpinista lecchese - perché era un caro amico di papà (Aldo Anghileri, arrampicatore di classe e tra i protagonisti dell'alpinismo italiano durante gli anni Sessanta, ndr). Oggi, col senno di poi, rivedo una persona molto concentrata che credeva fermamente in quello che faceva. Non era timido, bensì davvero umile, e le sue vie riflettono la sua personalità, il suo desiderio di scoperta. Molti mi vedono simile a lui: un bel complimento, indubbiamente... Ma io non so cosa dire: forse, se sono veramente tale, è soltanto perché, se un uomo desidera ricavare dall'alpinismo determinate risposte, il percorso da seguire è uno soltanto, assolutamente logico. E sulla Solleder in inverno, una sorta di “elogio della lentezza”, credo di aver provato le medesime sensazioni che egli visse sulla Nord del Huascarán o durante il grande concatenamento sul Monte Bianco, un'impresa straordinaria che, purtroppo, molti non hanno capito».

Parole pesanti, quelle di Marco Anghileri, che non possiamo contraddire e che ci conducono direttamente verso il primo dei fulcri attorno ai quali ruota questa analisi: Renato Casarotto, vero e proprio “incompreso”, non ha mai conquistato il posto di primo piano che, nel panorama alpinistico internazionale, gli spetterebbe di diritto. Non che sia l'unico al quale è toccata una sorte del genere – chi, tra i moderni guerrieri armati di fantasmagoriche piccozze, ricorda ad esempio Gian Carlo Grassi o Gianni Comino? – ma nel suo caso un simile trattamento appare decisamente sconcertante e ricorda, pur ovviamente diverso nelle motivazioni, la caduta nell'oblio della musica di Johann Sebastian Bach dopo la morte del suo autore. Il paragone è soltanto apparentemente azzardato e l'augurio è che, ad un certo punto, proprio come accadde ai capolavori del grande compositore tedesco, anche alle imprese di Casarotto venga riconosciuto il loro autentico valore di realizzazioni fuori del tempo, di summa perfetta del sempre vivo e vitale dialogo dell'uomo con la montagna. Basti pensare, in questo senso, alla prima salita del Diedro Sud-ovest dello Spiz di Lagunaz, nel selvaggio gruppo delle Pale di San Lucano, compiuta da Renato con l'amico Piero Radin tra il 5 e l'11 giugno 1975: lo stesso Radin la ricorda come un'esperienza irripetibile, di estremo impegno, e che in ultima analisi si rivela quale stupefacente balzo in avanti nell'evoluzione dell'alpinismo - in mirabile equilibrio tra “spirito del mito” e “forza della ragione” - di portata difficilmente valutabile. Se l'istinto creativo di Casarotto si espresse nel modo più compiuto con una serie di salite in quel gruppo del quale già Emilio Comici intuì l'importanza, «è certamente la salita del Gran Diedro dello Spiz di Lagunaz ad imporsi su tutte» (Gian Piero Motti).

Nella società attuale, caratterizzata dalla logica dell'effimero, del “tutto e subito” e dal dominio incontrastato di vacue opinioni sostenute dall'urlare continuo dei mass-media, in grado di ridurre la complessità del reale ad una sconcertante e disorganica accozzaglia di dettami ispirati ad un poco edificante “senso comune”, la visione della storia – che, in verità, non è più nemmeno tale - appare come mai in passato profondamente campanilistica. Quindi, limitando il discorso all'alpinismo, può capitare che a tre brillanti francesi riesca in inverno, per la precisione tra il 19 e il 28 febbraio 2003, la cosiddetta Super integrale di Peutérey (Ratti-Vitali sulla parete ovest dell'Aiguille Noire, Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina, goulotte Frêneysie Pascale tra i Piloni centrale e di destra del Frêney fino in cima al Monte Bianco). Può capitare poi che il concatenamento venga definito «senza alcun dubbio l'itinerario più difficile mai percorso per raggiungere il tetto d'Europa» e, ultimo tassello, che si dimentichi quello che Renato Casarotto riuscì a portare a termine tra il 1° e il 15 febbraio 1982 quando, in solitaria e in completa autonomia, salì la Ratti-Vitali, scese lungo il versante nord dell'Aiguille Noire, superò la Gervasutti-Boccalatte e poi, raggiunta la base del Pilone Centrale, proseguì lungo la Bonington fino ai pendii sommitali e alla vetta. Una linea perfetta e continua, decisamente superiore alla scelta di Stéphane Benoist, Patrick Pessi e Patrice Glairon Rappaz – i tre brillanti francesi – che dalla vetta dell'Aiguille Noire hanno scelto di calarsi per la via appena percorsa per poi raggiungere l'attacco della Gervasutti lungo il ghiacciaio del Frêney.

A gettare un'ombra su Casarotto contribuì anche Reinhold Messner. Il fuoriclasse altoatesino, in seguito alla già menzionata spedizione al K2 del 1979, non ebbe certamente parole di riguardo nei confronti dell'alpinista veneto che, già allora, avrebbe voluto tentare seriamente la Magic Line. Si innescò quindi una polemica nei dettagli della quale preferiamo non entrare, limitandoci a ricordare che nel suo volume Sopravvissuto (1987), Reinhold scrisse che Casarotto era il più debole fra tutti i partecipanti della spedizione (oltre a loro c'erano Alessandro Gogna, Friedl Mutschlechner, Michl Dacher e Robert Schauer) spiegando, poco oltre, di averlo invitato perché lo riteneva «uno dei migliori rappresentanti dell'alpinismo classico mitteleuropeo. Durante l'impresa tuttavia si dimostrò troppo lento per poter essere d'aiuto alla squadra alle quote più alte: all'epoca rinunciai al progetto di tentare il pilastro Sud anche perché non avrei potuto contare sul suo appoggio». Messner aggiunge infine che «nel 1986 Casarotto tornò al pilastro sud del K2. Non so dire se intendesse “saldare un conto” o se per lui, come la prima volta, la Magic Line fosse molto importante. So soltanto che era destinato a fallire. Renato Casarotto, per cui provavo del rispetto, precipitò e morì in discesa in un crepaccio».
Reinhold parlò di Renato anche sulle pagine della Rivista del Club alpino italiano (maggio-giugno 1987), affermando che «tecnicamente aveva dei grossi limiti» e provocando l'immediata e perentoria reazione di Andrea Gobetti e, soprattutto, di Roberto Mantovani. L'attuale direttore della Rivista della montagna non usò mezzi termini e rispose al primo salitore dei quattordici ottomila ricordandogli «la strabiliante serie di prime ascensioni, prime invernali e prime solitarie» portate a termine da Casarotto, sottolineando anche come «quei pochi alpinisti che si sono trovati a dover fare i conti con le vie di Renato abbiano espresso tutti dei giudizi più che lusinghieri, confermando in pieno la valutazione tecnica espressa nelle prime relazioni».

Le parole di Mantovani trovano conferma in quelle di Marco Anghileri e di due alpinisti tanto schivi quanto mossi da una passione disinteressata: Giacomo Albiero e Piero Radin, storici compagni di cordata del nostro eroe silenzioso.
«Credo che la Casarotto alla Busazza – spiega Anghileri – sia il classico esempio di come la storia che si trova dietro una via rappresenti uno degli elementi che più la rendano affascinante. Ripetendola in invernale non ho potuto non pensare al suo primo salitore e ai mezzi che utilizzò: le emozioni più grandi, durante la scalata, arrivarono sicuramente dalla figura di Renato. Io e Riccardo Milani (forte alpinista lecchese compagno di Mauro “Bubu” Bole in occasione di un recente tentativo al Cerro Torre, ndr) rimanevamo stupiti ogni volta che ci trovavamo ad affrontare passi per niente facili, ricordando che colui che ci aveva preceduti li aveva superati con ai piedi dei pesanti scarponi».

Abbiamo già ricordato che con Casarotto, in occasione della salita alla Cima della Busazza, c'era il forte ed esperto Albiero, classe 1925 e quindi oggi ormai prossimo alla soglia degli ottant'anni. La sua testimonianza si intreccia con quella del più giovane Radin, nato nel 1943, e presenta uno spaccato interessante della personalità del fuoriclasse veneto: uno spunto per procedere oltre “la scorza delle rocce” e, seguendo l'intuizione di Gian Piero Motti e alcune affermazioni di Ivan Guerini, considerare la figura di Casarotto oltre i numeri dei suoi capolavori alpinistici. In altre parole: fornire un'interpretazione culturalmente più ampia e profonda delle scalate del nostro personaggio per arrivare a liberare l'alpinismo dal vicolo cieco nel quale spesso si è cacciato e renderlo, ancora nello spirito di Motti, “balcone privilegiato per osservare la realtà e l'evolversi delle cose”.

«Conobbi Renato nel 1973 frequentando la sezione del CAI di Vicenza – racconta Giacomo Albiero -. Non fu nulla di strano: cominciammo a parlare tra noi e ci lasciammo con un appuntamento per la domenica successiva, quando arrampicammo insieme per la prima volta. Da allora ne abbiamo combinate di tutti i colori: importanti ripetizioni, vie nuove...». Radin, invece, conobbe il nostro protagonista in palestra: «Ci incontrammo e fu subito intesa – ricorda Piero -: non passò molto tempo che eravamo già insieme, in inverno, sullo spigolo Strobel alla Rocchetta Alta di Bosconero, nelle Dolomiti zoldane». La salita richiese tre giorni, era il marzo 1974, e Motti la definì «un netto salto qualitativo nell'evoluzione di Casarotto, prefigurando l'impronta che egli darà al suo alpinismo invernale e solitario».

Ammirazione senza compromessi rivelano ancora Albiero e Radin: se il primo parla di un «personaggio stupendo, sia come uomo che come alpinista, che in parete sembrava non incontrare mai vere difficoltà», il secondo ricorda come in realtà non fosse come a molti era dato di vederlo: «Non era un “orso” - spiega -. Amava anzi parlare, confidarsi con gli amici, anche se era meglio non contraddirlo..., ed aveva un forte sentimento religioso. E' difficile fornire valutazioni precise in questo senso, tuttavia posso assicurare che in parete, anche nei momenti più critici, a differenza della maggior parte degli alpinisti mai pronunciò un'imprecazione o soltanto parole volgari. Senza dimenticare il suo profondo senso della famiglia e ciò che provava per Goretta: sua moglie fu per lui un aiuto determinante, un'incredibile sostegno psicologico in ogni situazione». Ancora Mantovani, grande amico di Casarotto che con Roberto, dopo il ritorno dal K2, avrebbe voluto ripercorrere tutte le grandi classiche delle Dolomiti per compilarne una fantastica storia a quattro mani, a proposito del “modo di porsi” di Renato precisa che «in pubblico appariva schivo, quasi dimesso; con gli amici invece era vivace, curioso, dalla battuta pronta». Tanto che certe sere, spinti da quella voglia di capire che a trent'anni suonati rende ancora simili a dei ragazzini, i due “compari” tiravano le ore piccole soltanto per parlare: «Passavamo il tempo a svitare e riavvitare il mondo – ricorda Mantovani -, per trovare una soluzione ai problemi di cui si discuteva».

Dal punto di vista più strettamente tecnico era un primo di cordata per vocazione, sulle tracce di Cassin e Bonatti che non sopportavano l'arrampicare con la corda tesa davanti. «Ho sempre avuto il pallino di scalare da primo, anche quando arrampicavo con gente molto brava – confessò Renato in un quaderno -. Forse mi sbagliavo, ma non mi sentivo mai abbastanza sicuro appeso alla corda di un altro. Probabilmente è per questo – aggiunse – che non ho avvertito il gran salto dell'arrampicata solitaria». «Non amava arrampicare da secondo – conferma il saggio Albiero – e in testa alla cordata era in grado di piantare chiodi in posizioni apparentemente impossibili: io, quando dovevo schiodare, ero spesso costretto ad “appendermi”! Stilisticamente ineccepibile, aveva uno stile “aperto”, con grandi spaccate... Era un puro, non disposto ad alcun compromesso, avversario senza mezzi termini dei chiodi a espansione: mai ne piantò e mai ne portò con sé durante una salita. Renato ha arrampicato soltanto per intimo piacere, per ottenere il meglio di sé: era umile, non amava farsi pubblicità e mai, neppure dopo straordinarie imprese come quella che ritengo il suo capolavoro, la solitaria invernale del Diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza, con la parete ricoperta da un'immensa crosta di ghiaccio, si montò la testa». Le parole di Piero Radin si aggiungono, ricalcandole, a quelle di Albiero: «Con lui – ricorda l'amico - arrampicai quasi sempre da secondo, soltanto negli ultimi anni mi capitò di fare qualche tiro davanti... Era determinatissimo, Renato, con una grande forza mentale, e quando si lanciava in un'impresa si poteva star certi che mai avrebbe mollato: una volta fissato un obiettivo faceva di tutto per raggiungerlo. Così nel 1979, sul K2, subì un colpo non indifferente: quella volta tornò a casa deluso, profondamente demoralizzato per non aver potuto giocare tutte le sue carte. Sette anni dopo decise di ritornare laggiù: lui, l'amico del grandioso Trittico del Frêney e del McKinley in solitaria, era fatto così. La sua scomparsa mi parve inverosimile: rimasi sbalordito, non volevo crederci anche perché, per quanto riguarda la sicurezza, Renato non trascurò mai alcun dettaglio. Tanto che in solitaria arrampicò sempre autoassicurato, sfruttando il famoso sistema dei cordini con i Prusik».

Già, le solitarie: non è possibile parlare di Renato Casarotto senza entrare nei dettagli dei suoi personalissimi colloqui con la montagna, capolavori che, al modo di stupendi autoritratti, ci permettono di ripercorrere la sua evoluzione creativa, tecnica e, soprattutto, umana.

Era il 1968, quando il nostro protagonista aveva già vent'anni, che la montagna lo stregò irrimediabilmente. I primi passi li mosse sulle montagne di casa, le Piccole Dolomiti, e manifestò fin dagli esordi una spiccata predilezione per le avventure senza compagni e per la ricerca di nuovi itinerari. Nel 1971, tutto solo, salì uno storico itinerario di Raffaele Carlesso nel gruppo del Pasubio ma è tra il 19 e il 23 dicembre 1974 che confezionò il suo primo gioiello: l'allucinante prima solitaria invernale della Simon-Rossi sulla parete Nord del Pelmo. Soltanto due mesi più tardi, dal 22 al 27 febbraio 1975, ebbe modo di ripetersi lungo la Andrich-Faè sulla parete Nord-ovest del Civetta e nel 1977, dal 5 al 21 giugno (diciassette giorni di permanenza ininterrotta in parete!), superò l'immensa parete Nord del Nevado Huascarán, la più alta cima delle Ande peruviane. Fu un'impresa titanica, tanto per concezione quanto per le difficoltà superate, e oggi (aprile 2003), l'itinerario è ancora in attesa di una ripetizione. Alice Pedretti, moglie del tanto formidabile quanto schivo alpinista camuno Battista Bonali, disse un giorno che la Nord del Huascarán è come «uno sparviero minaccioso che si difende dall'attacco» e che un giorno, era il 1993, attirò a sé proprio Battista. Egli avrebbe voluto scalarla per i bambini dell'“Operazione Mato Grosso” di padre Ugo De Censi, missionario da anni attivo in Perù, e, informato proprio da Goretta Casarotto dei grandi pericoli oggettivi che essa presentava, contava di ripeterla nel più breve tempo possibile. Ma quando erano ormai a poche decine di metri dalla vetta, vicini al coronamento del loro sogno, Battista e Giandomenico Ducoli furono probabilmente travolti da una scarica di sassi. Per loro non ci fu nulla da fare: vennero ritrovati milleseicento metri più in basso, alla base della nera muraglia.

Nel 1979 fu la volta del superbo ed evidente pilastro Nord-est del Fitz Roy, in Patagonia: Renato l'aveva già tentato con la guida alpina erbese Graziano Bianchi e aveva in seguito deciso di provare da solo. Il risultato fu una superba linea di oltre mille metri con difficoltà di VI+ e A2. Ma non indugiamo nelle sterili sigle: nel 1982 fu la volta del già ricordato Trittico del Frêney e poi, dal 30 dicembre al 9 gennaio 1983, della solitaria invernale del capolavoro di Enzo Cozzolino sul Piccolo Mangart di Coritenza. Per rendere l'idea delle condizioni della parete in quello scorcio d'inverno basti ricordare che un giorno, dando il massimo di sé, Casarotto riuscì a progredire soltanto di venti metri.

Dalle Ande alle Alpi e poi al Karakorum, sullo sperone settentrionale del Broad Peak Nord dove, pochi mesi dopo l'avventura del Diedro Cozzolino, una via nuova di duemilacinquecento metri di dislivello e di alta difficoltà su ogni tipo di terreno divenne una stupenda realtà. In quell'occasione, come spiega Roberto Mantovani, «durante la discesa il buio bloccò Renato a 7500 metri, costringendolo a trascorrere la notte in piedi, su un masso piantato in mezzo al pendio ghiacciato, senza tendina, senza sacco a pelo e senza zaino». In dodici giorni, nell'aprile 1984, il nostro eroe superò ancora la cresta Sud-est del McKinley (The ridge of no return ossia “La cresta del non ritorno”, come l'avevano battezzata Glenn Randall e Peter Metcalf dopo un tentativo). Casarotto riuscì a farsi strada in un labirinto di cornici infernali, giganti pericolanti pronti a crollare ad ogni istante, e a scovare la via in un surreale mondo di ghiaccio dove egli, per la prima volta, si trovò a lottare con elementi nuovi – definiamoli pure “allucinazioni” e “paura” - dei quali aveva forse intuito l'esistenza senza tuttavia, prima di quei giorni, sperimentarla in modo pieno.

L'ultima grande impresa solitaria invernale del nostro protagonista risale al 1985. Erano stati necessari ben sei tentativi ma alla fine – e tornano alla mente le parole di Piero Radin -, Renato ebbe ragione di se stesso e di quella parete che, come scrisse Gian Piero Motti nella sua Storia dell'alpinismo, appare «rossa come il sangue, verticale, compatta, e si alza prepotente sopra un caos di blocchi di ghiaccio»: è la parete di Giusto Gervasutti, la feroce e selvaggia Est delle Grandes Jorasses. Il “Fortissimo” l'aveva superata nel 1942 al termine di un'autentica epopea che lo aveva visto tentare e ritentare e Casarotto, perso in quel mare di placche di granito incrostate di ghiaccio, si ritrova forse senza rendersene conto sulle tracce del grande friulano, con nella testa i pensieri di quei pochi che avevano voluto avere a che fare con quella via. Così, ad un tratto, ecco risuonare nell'aria, quasi fosse il vento a centocinquanta chilometri l'ora ad averle portate fin lassù, le parole di Gervasutti, l'allucinato ed incandescente canto dell'eroe che si eleva sopra ogni forza della ragione: «Ero partito da solo, come spesso mi accadde in quell'anno – scrisse il “Fortissimo” -. Sapevo che l'alpinismo solitario in genere è condannato e considerato quasi come una mania suicida». Ma «nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, nella dolcezza un po' stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità». Perché «l'ebbrezza di quell'ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia... Ed al giovane compagno che inizia i primi duri cimenti, ricorderò il motto dell'amico caduto su una grande montagna: “Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio”».

«Renato – spiega Roberto Mantovani – considerava la scalata come uno straordinario mezzo introspettivo, uno strumento per arrivare al nocciolo della vita e trovare una risposta alle grandi domande», ritenendo che il procedere in solitaria lungo una via nuova, oppure in libera dove altri erano riusciti a forzare i passaggi soltanto in artificiale, fosse il massimo. Non amava rischiare e giocare d'azzardo con la vita, ma non era attratto dalle vie facili: egli desiderava compiere un viaggio nell'ignoto, liberare se stesso nell'azione e quindi conoscersi nel modo più profondo. I limiti, affermò una volta, «esistono soltanto perché li poniamo dentro di noi».

Casarotto cercava la libertà, era impegnato lungo un cammino difficile e pericoloso. Egli era cosciente dei rischi della vita incolore e colma di compromessi: sapeva benissimo che, in fin dei conti, erano ben superiori rispetto a quelli che si incontrano in parete. Così volle diventare l'alfiere della vita, esporsi per raggiungerne almeno per qualche istante l'essenza. L'alpinismo solitario è quindi soltanto una chiave, un mezzo per raggiungere ben altri risultati che non la conquista di vette e pareti: nell'esasperante lentezza della progressione si entra in una dimensione particolare dove l'istante sfuma in un oceano temporale indefinito, dove non sono permesse «interruzioni, intromissioni, ingerenze dal mondo della flaccidità, dell'opulente comodità» (Alberto Peruffo).

Il fuoco interiore ha bisogno di tempo per svilupparsi e Renato ne ascoltò sempre le esigenze, intraprendendo una ricerca estrema che lo portò a comprendere ciò di cui parlò Anna Lauwaert, compagna in montagna e nella vita di un altro leggendario solitario, il belga Claudio Barbier, nel volume La via del drago: «La montagna insegna a prendere coscienza della propria solitudine, a valutare le proprie forze, a gestire paure e debolezze, a camminare malgrado tutto, perché non c'è altra soluzione. Mosè salì sulla montagna e Dio gli venne incontro; solo nel silenzio della solitudine Dio parla. Solo attraverso la sperimentazione e l'accettazione della solitudine l'uomo trascende se stesso, l'essere trascende il tempo... Allora il silenzio parla, allora si raggiunge il principio; e “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio”».

L'alpinismo solitario - è il secondo fulcro della nostra trattazione - si configura come momento di assoluta ribellione, di totale presa di coscienza della propria grandiosa dignità: è come un'opera d'arte che si eleva al di sopra degli umani accadimenti, un guizzo di genio che, svincolandosi dal marasma sterile della banalità, sgretola tutto ciò che ogni giorno sempre più intorpidisce la lucentezza dei pensieri, permettendo di riconquistare una purezza perduta. Ma per procedere lungo questa strada, difficile e faticosa, occorre, come scrisse un giorno proprio Battista Bonali, «sporcarsi le mani», ossia andare controcorrente perché, sono sempre parole del primo salitore del Great Couloir della parete Nord dell'Everest, «non si arriva in cima a una montagna se non si comincia a camminare in salita».

Le solitarie di Renato ci presentano immagini diverse della sua personalità o, meglio, una medesima immagine secondo prospettive e in momenti differenti: sono pagine di un diario che egli ha dedicato a sé, gli apici di una creatività sempre altissima che richiamano le ultime opere di Rembrandt. Nelle sue ultime tele, quegli orgogliosi autoritratti che raggiungono l'universale, il grande pittore olandese chiude la sua parabola umana e si raffigura inscindibilmente legato alla sua arte, ribadendo una volta per tutte la propria individualità. Egli si spense solo e in silenzio, mentre lo stile della pittura e della vita del suo paese stavano rapidamente e irrimediabilmente scivolando verso un conformismo anonimo che non ne voleva sapere di estreme ricerche.

Allo stesso modo il cuore dell'attività di Casarotto cadde in un momento cruciale della storia dell'alpinismo, quando il tentativo di liberare l'arrampicata dalle ammuffite pastoie di un tempo stava ormai fallendo. Egli si ritrovò come rinchiuso in un'antica cattedrale colma di suoni d'organo mentre, fuori, le nuove generazioni erano già vittime della fretta, del “mito dell'uomo-muscolo alla Bronzo di Riace” (Gian Piero Motti, Arrampicare a Caprie) e non più in grado di apprezzare quell'arte complicata che richiede pazienza. Forse, ancora oggi, gli eredi di quei giovani sentono l'ammonimento tanto esigente, ma ciò che un tempo era sacro e bello, a loro è ormai incomprensibile: vittime dei tempi moderni e “incapaci di pregare”, lasciano vuoto il tempio, che si innalza preistorico sopra le affaccendate vie. E il maestro? Egli resta solo, non curandosi delle contraddizioni che scorrono febbricitanti lungo binari tempestosi, e in un ultimo istante, mentre non comprende più se il tempio teso verso il cielo sia davvero tale o sia piuttosto una cuspide di granito forgiata dalla natura, si piega su se stesso ed esprime l'insanabile dicotomia con la quale, purtroppo, occorre imparare a convivere.

«Raccontare, parlare, è molto difficile – scrisse l'indimenticabile Renato nel suo Oltre i venti del nord, al termine del racconto della solitaria della Ridge of no return -. E' sempre duro arrivare così vicino all'essenza della vita e poi, dopo, ritornare indietro e sentirsi imprigionati nelle strettoie del linguaggio, completamente inadeguato a tradurre in simboli i concetti e la totalità dell'esperienza vissuta. Un'esperienza lunga e sofferta che mi ha permesso di capire una verità fondamentale: alla base di tutto, di ogni azione che l'uomo compie, deve esserci sempre l'Amore». E anche Andrea Gobetti, parlando proprio dell'ultimo “puro folle” dell'alpinismo e della sua ultima parete, disse un giorno che «sotto sotto c'è qualcosa che ha a che fare con l'amore, quella porta oltre la quale c'è tutta la gioia e tutto il dolore del mondo, e chi non vuol sapere quanto è, non l'aprirà mai e, pazienza, vivrà senza saperlo».

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