E dalle sale. Ho trovato
poco coinvolgente la scelta di intercalare la voce e l'immagine reale
dei veri protagonisti, Joe Simpson e Simon Yates +
l'accompagnatore, nel pieno corso narrativo del film. Il filo
narrativo è anche un filo emotivo, e rompere i piani di lettura/visione,
è molto difficile e pericoloso, senza prendere i dovuti accorgimenti.
Accorgimenti che non sono stati presi e che non è mio dovere suggerire.
Secondo me l'alto valore realistico del film si sarebbe potuto
rispettare senza il bisogno di chiamare in scena, che non è più una
scena, i protagonisti reali dell'avventura. Vedere comparire nel bel
mezzo di ogni scena, potenzialmente dotata di grande carica emotiva,
le facce, astratte dal contesto e dagli attori in scena, di Simpson, Yates
o del terzo, che ti s-piegano con sguardo introspettivo ciò che sta per accadere,
l'ho trovato poco efficace. Una debolezza che fa diventare lungo e
prolisso il film stesso (106 minuti), che lo fa essere mezzo
documentario, mezzo film a soggetto. E sottolineo che i soggetti possono
essere anche storici, reali, senza entrare nella questione fittizia finction/no finction.
Una cosa è il valore realistico, altra il valore artistico. In altre parole la forte carica emotiva (o meglio commotiva, che
induce commozione) che contraddistingueva il celebre libro di Simpson,
l'ho sentita pian piano scemare durante la proiezione del film.
Straordinari passaggi emotivi, come il taglio della corda, il
ritrovamento del compagno e conseguente ricongiungimento in tenda,
sono stati interrotti o a volte sostituiti da parole e personaggi fuori
scena (che non è un fuori campo), quasi a inquinare, almeno nel mio
caso, il flusso di emozioni che una vicenda del genere è
impossibile non crei. Per essere un capolavoro mi sembra essere lontano
da magistrali sceneggiature a soggetto storico come Himalaya - Infanzia di un capo
di Eric Valli o dalla poesia documentaristica di El Capitan di Fred
Padula. Premiati a Trento. Veri capolavori, ai quali non ci avviciniamo
neppure per la fotografia. Sebbene le scene alpinistiche siano efficaci
(una su tutte, davvero perfetta, la caduta nel crepaccio
di Simpson), non credo bastino qualche sfilaccio di nubi e neppure la
ripresa aerea, circolare, della Siula Grande per sfiorare la luna di
Padula o il paesaggio di Valli. Idem la musica. Infine, certe scene
alpinistiche hanno fatto sollevare un po' di riso in sala. Si vede per
più di una volta il povero Simpson essere calato a velocità vertiginosa
lungo il ripido pendio di neve e ghiaccio. La prima volta resti stupito.
La seconda ti metti a ridere. Non si ride sul tragico. E un capolavoro non dovrebbe essere
ridicolo. Mai e per nessuno. Pure la scena del prusik, ultimo tentativo di Simpson di
risalire alla vita prima del fatidico taglio, sembra tratta dalla
passione di Cristo, con le mani troppo prosaiche. La giuria ha detto che
è un capolavoro. Può essere. Potrei interpretare tale affermazione come
un lavoro al capo di cui seguiranno altri di struttura simile, che non
sono né carne né pesce, come certe vie moderne sulle pareti dolomitiche.
Troppo cattivo. Può essere. Vabbè: è un film che vale la pena di vedere.
Ma l'autentico capolavoro resta il libro. Ergo: un'occasione mancata.
Questo è ciò che è passato per la MIA testa appena uscito dalla sala.
Terza cosa: tutti
aspettavano il 52° Filmfestival come il festival della riconciliazione.
Addirittura, visto come sono andate certe cose, delle riconciliazioni.
Puntualmente non avvenute. In primis, quella sul K2. Sono rimaste
impresse nei miei occhi, e nella pellicola, le espressioni dapprima
distaccate di Compagnoni e Lacedelli mentre Messner, nel cuore della
serata all'auditorium, attribuiva il giusto merito a Walter Bonatti,
ritratto nella classica foto giovanile con barba. Giusto in quanto
equamente diviso tra tutti i membri della spedizione, sottolineando lo
sforzo di Bonatti e compagni per portare le bombole d'ossigeno
all'ultimo campo, l'abilità di Lacedelli nell'affrontare le rocce del
tratto chiave e di Compagnoni di battere pista sul difficile terreno
misto finale. Compagnoni e Lacedelli straordinari pure nel riprendere le
fasi finali con la telecamera. Espressioni, dicevo, in un primo momento distaccate,
quindi impietrite quando Reinhold ha riproposto, fuori tema, la grandezza
di Bonatti, accompagnata dal secondo e più lungo applauso della serata,
con l'alpinista stavolta ritratto durante una delle sue grandi imprese sulle Alpi. Non è
i caso di ritornare sulla questione nei minimi dettagli recentemente
riproposti da Bonatti sul suo ultimo libro a cui seguiranno,
sorprendenti si dice, quelli di Lacedelli nel libro curato da Giovanni
Cenacchi. Così almeno mi ha confidato lunedì Giovanni, visitandomi in
libreria. Non è il caso. Ma, rivedendo sul palcoscenico il grande Charles Houston, di cui un millesimo di alpinisti italiani conosce la
storia, mi viene da fare una considerazione. Venerdì sera, dopo 50 anni,
di fronte a un pubblico numerosissimo e desideroso di sapere, vedere,
era il momento opportuno per la riconciliazione tra Bonatti, Compagnoni
e Lacedelli. Non c'è stata. Eppure, se si sentono entrambe le campane,
perennemente stonate, se si sentono le risoluzioni dei grandi saggi, sì,
insomma, si sa che lassù qualcosa non è andato. Che le bombole tiravano
o non tiravano. Che l'ambizione a volte, volenti o nolenti, crea
fraintendimenti. Si sa che non è stato un capolavoro di intesa. Che
qualcosa non è andato. Cosa, di preciso, solo loro lo sanno e credo che
mai nessuno lo saprà. Uno dirà una cosa, gli altri ne diranno un'altra.
Ma non c'è terzo che possa confermare, verificare. E' la legge della
scienza. L'unica verità che noi, quaggiù, a livello del mare, a filo di pelle, di
sensibilità umana, terrena, abbiamo colto, è questa: se dopo 50 anni delle persone
non si stringono la mano significa che qualcosa di veramente grave è
successo. VERAMENTE GRAVE. Basta, non ne vogliamo più sapere di questo
K2 all'italiana. Non c'è più una nazione da risollevare (o forse c'è, mi
viene il dubbio dopo tutto). Preferisco suggerirvi di approfondire la
storia delle eccezionali spedizioni americane del 38, 39 e 53, di cui
recentemente ho riletto tradotto in italiano fluente ed esemplare dal
grande storico dell'alpinismo Giovanni Rossi (perché non è stato
chiamato costui tra i saggi del K2?), pagine tra le più superbe dei
racconti d'ascensione. Correte a leggervi il nucleo centrale della
spedizione Houston del 53. La ritirata causata dal maltempo di una
squadra affiatatissima arrivata quasi a 8000 metri lungo lo Sperone
degli Abruzzi, sette alpinisti in splendida forma tutti pronti per la
vetta e decisi a non rivelare la cordata di punta, democraticamente
scelta, in caso di successo, uno di questi improvvisamente colto
da una grave forma di flebite, irreversibile, la morte sicura, il
prodigarsi dei compagni per salvargli la vita e non lasciarlo da solo,
quasi una settimana passata sotto bufere di neve che non permettono di
scendere, l'incidente che travolge l'intero gruppo, a parte uno che salva tutti,
Houston compreso, soggetto a commozione cerebrale, la scomparsa del
ferito legato... una storia paragonabile, se non superiore per forza
drammatica e rapporti personali, a quella di Simpson sulla Siula Grande.
Per non parlare di Wiessner che tocca le rocce insormontabili degli 8300
metri nel lontano 39, passate poi da Kukuczka, senza possibilità
di riprovare da un'altra parte per soccorrere il suo compagno esausto,
un portatore hunza. E leggo e rileggo, incredulo, e non c'è una riga
dove si parla di bombole d'ossigeno. Spedizioni leggere. Poi arriva la
spedizione militare di Desio con una città di portatori. Un'altra
storia. Nazionale. Ad ogni costo. La cima. Risultato: io la sera di
venerdì avevo con me una cartina orografica del Baltoro e sono tornato a
casa con l'autografo di Charles Houston. Solo un autografo. Uno dei più
grandi esploratori di montagne di tutti tempi. Un vero signore. Punto.
Quarta cosa: la seconda
del punto precedente. Pure tra CAI, Festival, conventicole varie e
Comune di Trento c'è stata poco conciliazione. Per il K2 mostre diluite,
saggi sperduti, quando si sarebbe potuto far convergere tutto a Trento
in occasione del Festival e della tanta pubblicizzata serata
conciliatrice. Il Comune di Trento (regione o provincia, non vorrei
sbagliare, comunque l'ente preposto), da quel che ho sentito, non si è
dato molto da fare per aiutare il Festival. So che certe scelte fatte
dal direttore e dal presidente sono state fatte per necessità. La tanto
criticata decisone di spostare la proiezione dei film nelle multisale ha
i suoi aspetti positivi e negativi. Se ne potrà discutere. Ci si
adatterà più o meno. Sicuramente è in linea con i grandi festival
internazionali del cinema e con le attuali magre finanze di quello
trentino (da quel che ho appreso il Comune domandava cifre esorbitanti per il
noleggio dell'auditorium). Infine, ho colto ancora la classica malattia
associativa, da conventicola, in giro per le varie sedi del Festival.
C'è il CAI, la SAT, la SOSAT, il GISM, il CAAI, l'UIAGM ecc. ecc. Se vai
da una parte non trovi quelli dell'altra. Se non le cariche
istituzionali. Le basi se ne stanno per conto proprio. Insomma,
alpinisti,
incontratevi, prolificate, uscite dai vostri gruppi e andate a
esplorare altri mondi. Non solo montagne.
Quinta cosa: una proposta.
Per quanto si sia ristabilito la mensa + bar + salottino con palco, il
dopofestival, o l'intrafestival, manca di momenti di coesione e di
incontro specie tra gli alpinisti delle nuove generazioni. Di questi
ultimi se ne sono visti pochi. Sarebbe bello creare un circuito di
incontri dove i giovani (in senso produttivo/artistico...) e le loro
sperimentazioni potessero incontrarsi. E confrontarsi con la tradizione.
Magari a fine serata. Le vie nuove dell'arte sono molteplici quanto i
nuovi modi di andare in montagna, o, se volete, sulla verticale. Ci
vorrebbe uno spazio, un luogo informale d'incontro, penso ad esempio
alla nuova Pedavena, e un gruppo di persone, o qualcuno, che facesse la
regia di fine serata, penso ad esempio all'ex-atletico poeti di Trento,
gruppo molto attivo.
Sesta cosa: in
teoria un fatto meramente linguistico. Lo presupponeva il prologo.
In verità non ho altro da dire. La sesta è una misura difficile da
prendere in mano. Soprattutto dopo il mio incontro, personale, con
Reinhold Messner. Oltre le quinte, prima della serata all'auditorium. Ha
detto di sì al mio ultimo progetto. Preferisco tacere. Finalmente.
Un caro saluto
Alberto Peruffo
redazione intraisass
14 maggio 2004
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